Tra rose spine, vent’anni nelle vite fragili. Due assistenti sociali raccontano

Nella vita sono Carla e Roberta, nel libro si sono date i nomi di Marta e Francesca. Nella vita e nel libro sono due assistenti sociali che in oltre venti anni di attività hanno ascoltato e vissuto limiti,  slanci, contraddizioni, gratificazioni, frustrazioni, rose e spine di un mestiere d’ “insolita bellezza” che ha il potere di incidere profondamente sulla vita delle persone che attraversano periodi di fragilità.
Le due colleghe, “complici” si definiscono, raccontano, si confrontano, si trovano d’accordo e no, ma soprattutto offrono lo spaccato di un’umanità che troppi non vedono.

Abbiamo scelto una soltanto delle storie raccontate, l’invito è quello di leggere tutte le 164 pagine del libro “L’insolita bellezza di un mestiere” disponibile anche in pdf.

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AIUTATI CHE IL CIEL T’AIUTA

Questo detto popolare,  più che un desiderio, é una visione  pratica della vita.
Se di fronte alle difficoltà, si tende ad ingigantirle a pensare che non ce la  faremo, sarà molto complesso  esaudire i nostri desideri, i nostri sogni.
Mentre se riusciamo ad andare oltre, i problemi da risolvere saranno il giusto prezzo per arrivare dove desideriamo.
É una incitazione ad attivarsi, a non demordere, senza lamentarsi, il resto verrà da solo.
La coppia che avevo di fronte quel pomeriggio di gennaio, era venuta spontaneamente al servizio sociale.
Desideravano  un confronto, così avevano detto per telefono, quando avevano fissato l’appuntamento.
Erano sposati da sette anni, due bei ragazzi, si erano incontrati da giovani, nello stesso paese.
Lei figlia di una famiglia numerosa, genitori ormai anziani, con un passato illegale da cancellare.
Fratelli che andavano e venivano dal carcere.
Lui si era salvato da solo, sfuggendo alla coazione a ripetere di famigliari che vivevano al limite della legalità.
Loro due si erano trovati, entrambi avevano deciso di cambiare stile di vita, lavoravano,  si erano sistemati in una casetta carina.
Nonostante fossero consapevoli di essere riusciti insieme, a cambiare rotta, rispetto alle famiglie di origine, ad essere riusciti a costruire un presente dignitoso, erano seduti di fronte alla scrivania, con le spalle spioventi, tristi.
Non erano riusciti ancora ad avere un figlio loro, e si chiedevano come mai, proprio a loro, che si erano impegnati a costruire una vita in regola, fosse negato un figlio.
Vivevano il mancato concepimento, come un’ingiustizia immeritata.
Tuttavia non erano rivendicativi, era stato un loro modo di rendersi disponibili a chiedere in affido un nipote, i cui genitori erano stati arrestati.
Lei con tutta l’umiltà di cui era dotata, aveva detto che avrebbe desiderato occuparsi del figlio della sorella.
Lui il marito, con i palmi delle mani rivolte all’insù, aveva dato la disponibilità, aggiungendo che quel ragazzino di nove anni, avrebbe rischiato di finire male, se fosse stato lasciato al suo destino.
Il destino segnato sarebbe stata la comunità.
La signora dopo un lungo silenzio, col fiato trattenuto, aveva detto “sono quasi certa, che non mi sarà permesso di occuparmi di mio nipote, quale giudice e assistente sociale, mi accrediterá?
Vengo  dalla famiglia da cui vengo, tutti sanno di noi e degli sbagli commessi”.
Aveva pronunciato quelle parole con una delicatezza, una consapevolezza che trasmettevano un sentirsi ancora in debito, verso la società.
Per riscattare le colpe dei famigliari, avrebbe dovuto continuare ad essere inattaccabile, rimaneva incollata al suo cognome con un grave senso di colpa.
Nonostante tutto rispettava fratelli e genitori, ne riconosceva gli errori, ma non proferiva alcuna critica.
Scuoteva il capo come a dire che le dispiaceva, e non poteva fare altro di più di
quello che già faceva.
Lui parlava meno della compagna, aveva ammirazione per lei, condivideva i contenuti delle parole quasi a ringraziarla, per essere capace di dire certe cose, senza piangere, senza sorridere stupidamente, raccontava con modi di chi ha la coscienza a posto.
Il compagno era presente come chi condivideva con autenticità la vita di coppia.
Avevo ascoltato, avevo registrato nella mia memoria, i volti ed l toni delle voci di ciascuno, la supplica nascosta dietro una semplicità preziosa.
Non avevo commentato, non potevo sbilanciarmi, sarebbe stato scorretto e prematuro.
Dovevo aspettare di fare una visita a casa, per verificare dove vivevano, gli spazi
disponibili, lo stile di vita, se quanto narrato corrispondeva al reale.
Avevamo fissato l’incontro dopo una settimana.
La casa dipinta di fresco, era graziosa, su due piani, con un cortile interno, ingresso cucina soggiorno, due camere da letto ed il bagno.
Quando avevano mostrato la cameretta per il bambino, erano stati entrambi orgogliosi, era tutto pronto, avevano pensato e preparato più del necessario.
Non avevano atteso indicazioni, proposte, consigli, si erano fatti trovare pronti.
Il  nipote   nella   loro fantasia, viveva già lì.
Bisognava riflettere bene, il ragazzino aveva  nove anni, preadolescente, aveva tutte le caratteristiche di chi aveva vissuto trascuratezza e scarse attenzioni.
Forse un ambiente famigliare avrebbe potuto dargli più opportunità.
Non ero sicurissima,  avevo bisogno di essere convinta, dovevo prendermi un tempo per valutare i pro e i contro delle  due alternative.
Se il ragazzino avesse dovuto andare in comunità, avrebbe sofferto per più motivi, separazione dai genitori, per come vergognosamente dovevano lasciarlo. Dolore per andare in un luogo, dove avrebbe trovato coetanei, che come lui avevano subito sofferenze, troppo grandi da sopportare per la loro età, solitudine.
Se fosse andato in affido agli zii, avrebbe potuto recuperare attenzioni, sperimentare affettuosità sconosciute. Ma anche rimanere in un ambito dove si sarebbe continuato a parlare di reati, di illegalità.
Cosa fosse meno sbagliato, dovevo deciderlo e proporlo al Giudice.
Avevo iniziato a scrivere e i pensieri andavano in automatico.
Avevo  deciso con l’anima e con le parole,  che gli zii avrebbero potuto volergli bene, mandarlo regolarmente a scuola, continuare a parlare dei suoi genitori.
Saremmo stati in tempo in un secondo momento, se le cose fossero andate male a procedere diversamente.
Ho scritto tutte queste cose, come affioravano in mente, ero in pace, ci credevo.
Ho inviato la relazione in Tribunale, ho atteso che il Giudice emettesse il provvedimento, che decretava l’affido agli zii, con il compito all’assistente sociale di vigilare sull’andamento del progetto.
Avevo convocato gli zii, per dare lettura del decreto, erano felici, a lei ridevano gli occhi, lui si era commosso.
Il nipote era stato accolto da qualche giorno in assenza dei genitori, ristretti in carcere.
Ora  il ragazzino, non era più in attesa di una decisione, era stabilito dal Giudice.
Dopo circa diciotto mesi, avevo cambiato territorio di riferimento, una collega
avrebbe  continuato a seguirli al posto mio.
Otto anni dopo, un sabato pomeriggio, mentre ero al supermercato, avevo sentito la ruota di un carrello della spesa, che mi aveva sfiorato la borsa, mi sono girata, credevo di avere intralciato qualcuno, invece era la zia affidataria, mi ha salutata con gioia, mi ha chiesto come stavo.
Poi ha raccontato che avrebbe  voluto farmi sapere, che dopo tre anni di affido,
era nata sua figlia, che ora era lì accanto a lei, stessi occhi vivi, stesso sorriso.
Mi era venuto in mente tutto, la loro vergogna, l’umiliazione per la mancata maternità, la disponibilità ad occuparsi di un ragazzino, l’umiltà di chiedere.
Tutto era andato a posto.
Ormai il nipote era maggiorenne e lavorava, conduceva una vita normale.
Il cielo aiuta   le persone che si mettono in gioco.  Con coraggio e passione,  affrontano la vita, che a volte elargisce premi non contemplati.
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Carla Barbieri – Roberta Galassi Lombardia