Dopo soltanto un mese
la paura dell’altra

Ciao, sono R., ho 26 anni e sono un’assistente sociale. Ebbene sì, sono “fresca fresca”, laureata a marzo del 2019. Ho iniziato da nemmeno un mese a lavorare tramite una cooperativa in un Centro di Accoglienza Straordinaria nella provincia di Roma. Categoria immigrazione, target donne sole, una trentina di ospiti. Ambiente familiare, buona collaborazione e comunicazione in equipe, passaggio di consegna della collega uscente e supporto dalla coordinatrice dell’area sociale.

Tutto molto bello, entusiasmante! Ho pensato: “Finalmente posso sperimentare quello che ho imparato sui libri, le mie capacità professionali e le mie qualità personali!”.

Poi tutto è cambiato così repentinamente… Il virus è arrivato in Italia, i reparti degli ospedali sono intasati, la condivisione di messaggi audio e video dei professionisti sanitari sono agghiaccianti, c’è la dichiarazione di pandemia, si vedono i primi segni di cedimento di nervi delle persone, i decreti chiudono tutto e i media invitano in maniera ossessiva a restare in casa.

La situazione è davvero drammatica.

Così uscire di casa per andare in un centro di accoglienza non ha più lo stesso effetto su di me. “L’altra” inizia ad apparirmi come pericolosa, possibile fonte di guai, di malattie. E così anche l’ufficio.

Per la prima volta ieri ho sperimentato la paura nell’entrate in contatto con superfici condivise proprio mentre arrivavano altre due donne e bisognava fare i colloqui conoscitivi e aprire le cartelle sociali. Ci sono procedure e tempistiche da rispettare, anche senza le mascherine e in uno spazio  piccolo, non si può rimandare. Messe le sedie a debita distanza iniziamo. Una delle due donne arriva dalla Nigeria ed ha una storia pesante, difficile e violenta alle spalle.

Ha parlato per quasi due ore ininterrottamente, ha pianto, ha alzato la voce per la rabbia e la paura. Ho potuto esprimere la mia solidarietà e la mia empatia da due metri di distanza, usando soltanto le parole senza nessun altro contatto. E, a tratti alcuni pensieri disturbavano la mia attenzione: “la stanza è piccola, l’aria ristagnerà? Dovrei aprire la finestra anche se lei, che è vestita leggera avrà freddo”. E ancora “perché non sono arrivate le mascherine?  Saremo abbastanza distanti?” “Non mi devo toccare il viso perché ho toccato le chiavi e la maniglia che hanno toccato tutti. E se questa scrivania non è stata disinfettata?”.

Le mani, simbolo culturale del contatto umano e dell’aiuto, sono un po’ screpolate  dall’acqua e sapone, dall’Amuchina, dai guanti e dall’alcol. Prendono appunti, ma non fanno altro. Non stringono quelle della donna nigeriana, né le toccano le spalle, accompagnandola alla porta dell’ufficio.  Come tanti altri settori e professionisti, anche io tra dubbi e paure, cerco di fare il mio meglio dopo solo un mese…

R.D. Lazio


Le storie pubblicate sono testimonianze dirette o raccolte, di vicende personali e/o professionali degli assistenti sociali. Non hanno la pretesa di essere esempi universali, né di suggerire soluzioni, ma di raccontare, per chi scrive, cosa significhi questo lavoro. Anche in questi difficilissimi giorni.