Alexandra e le pesche. Riprovarci e crederci ancora

Quando ho conosciuto Alexandra, non mi è piaciuta. Sembra sconveniente dirlo, per il mestiere che faccio, ma la realtà è che non sempre le persone che incontri ti piacciono a pelle. A pelle, Alexandra non mi è piaciuta.

Innanzi tutto non mi è piaciuto conoscerla in una caserma dei Carabinieri alle 5 di pomeriggio di un venerdì, sapendo già che per accompagnarla in comunità sarei tornata a casa dopo cena e avrei dovuto mandare in fumo i miei programmi per la serata. E in più Alexandra non era una di quelle ragazzine che ti facevano venir voglia di aiutarle a ogni costo. Era una tredicenne sfrontata, ammiccante, strizzata in un body succinto e pantaloni attillatissimi, che continuava a dire con un mezzo sorriso impertinente che lei voleva solo tornare dal suo ragazzo e dalle sue amiche. Fatto sta che quando i Carabinieri l’avevano fermata per strada l’avevano scoperta essere minorenne, straniera e non accompagnata. Quindi da accompagnare in comunità per minori in pronto intervento e da segnalare all’autorità giudiziaria per avviare una presa in carico. Come da copione. E’ il mio mestiere.

Nei giorni seguenti la mia simpatia per Alexandra non è cresciuta affatto. Spiccicava appena quattro parole di italiano e quindi i miei colloqui con lei erano faticosi e pressoché inutili.

Passarono diverse settimane prima di avere la possibilità di disporre di una mediatrice culturale. E durante quei giorni Alexandra non ha fatto altro che combinare casini, mettere in atto tentativi di fuga e rocamboleschi rientri, con il risultato di dover quasi ogni mattina cercare una nuova comunità disposta ad accoglierla e tenersela per più di un paio d’ore.

Non mi piaceva Alexandra, ma più che altro cominciavo a sentire che non mi piaceva l’atmosfera che si veniva a creare intorno a lei. C’era qualcosa, di lei e di quel che capitava intorno a lei, di sottile e di inquietante che faticavo ad inquadrare. Come quando scoprii che prima di uno dei trasferimenti in una nuova comunità, quella tredicenne dagli occhi grandi aveva pensato fosse necessario nascondersi una lametta da barba sotto la lingua e tenersela lì, per tutto il viaggio in macchina, fino all’arrivo nella nuova comunità. O come quando mi resi conto che nei nostri vari spostamenti, avevamo sempre una stessa auto che ci seguiva, e si appostava, e ci aspettava, sempre.

Poi finalmente la mediatrice è arrivata. E i colloqui hanno iniziato da essere sempre faticosi, ma meno inutili. Alexandra, con il suo mezzo sorriso impertinente, si sedeva lì e ci raccontava delle strade della sua città, di suo padre ubriaco buttato sul divano, della sua sorellina che lei diceva morta per colpa sua. Si sedeva lì, strizzata nelle sue magliette scollatissime e ci parlava di sua madre rimasta a casa, che per telefono le diceva “Amore, come stai?”, ma che non le aveva mai chiesto di tornare e che non le aveva mai detto “Aspettami, ti vengo a prendere”. Si sedeva lì, con il suo trucco pesante, e ci raccontava del suo ragazzo, bellissimo, che l’aveva portata in Italia, che l’aveva capito dopo che non era davvero il suo ragazzo, che aveva portato qui altre come lei, che le aveva fatto fare delle cose, portata in appartamenti, ceduta ad altri uomini. Si sedeva lì e ci mostrava le cicatrici dei tagli che si procurava sulle braccia e piano piano quel mezzo sorriso si incrinava e quegli occhi diventavano più grandi, più neri, più fondi. L’avevano rotta dentro e stava facendo quel che poteva per tenersi insieme i pezzi. Non mi piaceva Alexandra, perché a pelle non può piacerti un’anima sfigurata da tutto il male del mondo. Devi prima ingoiarla, digerirla; solo dopo puoi accoglierla e amarla.

Mi ricordo che un giorno, arrivate in una comunità poco conosciuta , scelta lontana lontana per depistare il più possibile il suo ragazzo bellissimo, Alexandra non era in forma, continuava a piangere e a lamentarsi del male a un dente. Ci accoglieva un educatore visibilmente stanco, distaccato, con un sussurro strascicato: “Ma le ragazzine con storie così finiscono sempre per scappare… Probabilmente adesso sta facendo un po’ di scena.” E io ho pensato in quel momento che sarei tornata in ufficio e mi sarei messa alla ricerca di un’altra comunità. Perché, Santo Cielo, era vero, Alexandra era sfrontata, impertinente, bugiarda e rompipalle. Ma, Santo Cielo, aveva solo tredici anni, era sola al mondo e stava vivendo l’inferno! E se piangeva e diceva di avere mal di denti, io facevo in modo di crederle e le andavo a comprare la novalgina e poi magari le accarezzavo anche un po’ la testa, se mi rendevo conto che sarebbe servito a calmarla, a farle sentire un po’ meno male, qualsiasi fosse il male che sentisse. Come da copione. E’ il mio mestiere. E così abbiamo fatto.

E poi c’è stato l’ultimo viaggio insieme, verso l’ennesima comunità, sperando potesse essere quella giusta, sperando fosse attrezzata abbastanza per reggere tutta la devastazione che Alexandra si portava dentro. Eravamo in macchina, io, lei e la mediatrice. Intorno é comparso un frutteto e la giornata esplodeva di sole. Alexandra ha appiccicato il naso al finestrino, proprio come fanno i bambini, e ha esclamato: “Pesche! Buone pesche!” e siamo scoppiate a ridere, così, tutte insieme, senza motivo. E senza motivo ho sentito salirmi dentro qualcosa di commovente. Non so spiegare, ma mi commuoveva, come mi commuove ogni volta, guardare in faccia la vita mentre, con una forza sovrumana, sputa fuori dalle sue forme più fragili, più misere, orribili a volte, qualcosa di piccolo, di dolce, di bello e irrinunciabile, a cui ha senso aggrapparsi forte, per provarci, riprovarci e crederci ancora in quella vita.

Cominciava a piacermi, Alexandra, cominciava a piacermi davvero. E non solo perché anch’io adoro le pesche.

D.C. Piemonte


Le storie pubblicate sono testimonianze dirette o raccolte, di vicende personali e/o professionali degli assistenti sociali. Non hanno la pretesa di essere esempi universali, né di suggerire soluzioni, ma di raccontare, per chi scrive, cosa significhi questo lavoro. Nelle emergenze nazionali e mondiali e nella quotidianità che, per questa professione, è sempre emergenza.