Li guardo dichiarare davanti alle telecamere e vorrei parlarci, vorrei dire a chi racconta di soluzioni che non esistono: “Venite qui, passate una giornata al molo, provate a dare un giocattolo a uno di questi bambini arrivati qui soli, da chissà dove e chissà dopo quali tragiche avventure, guardateli negli occhi”.
Sto qui da quasi tre anni e…non è cambiato nulla, anzi ci sono momenti, come questo, in cui la situazione sembra sull’orlo dell’esplosione per emergenze che si ripetono senza che, tra una e l’altra, qualcuno abbia modificato qualcosa.
Non parlo soltanto dei migranti, ma di tutto e di tutti a cominciare dagli oltre seimila residenti dell’isola che non hanno, mai, dico mai – e non soltanto in questi giorni dove al poliambulatorio arrivano donne, bambini e uomini in situazioni di salute drammatiche – neanche un’assistenza sanitaria degna di questo nome. Anche soltanto per un intervento odontoiatrico un po’ più complicato devono spostarsi a Palermo, con tutto quello che ne consegue anche in termini economici. E sì, perché, qui, dove sono l’unica assistente sociale comunale – le organizzazioni umanitarie portano con loro qualche operatore sociale – anche la quotidianità è un’emergenza con una popolazione che porta con sé fragilità legate alla condizione di insularità o a ristrettezze materiali che hanno radici antiche e mai estirpate.
Nonostante questo, mentre i potenti parlano, la gente di Lampedusa è tornata a dimostrare di essere di grandissimo cuore. Ognuno, per quel che può, sta dando una mano. Anche tra i più bisognosi non ho sentito lamentele, non ho visto nessuno protestare perché, al poliambulatorio, un migrante l’aveva scavalcato.
Io, da assistente sociale, per il mio lavoro, entro in gioco soltanto quando vengo chiamata in causa per identificare e proporre ricollocamenti di minori non accompagnati. Ma sui cinquecento che secondo i media sarebbero passati da qui in questi giorni, io avrò affrontato venti casi, la maggioranza dei quali per minorenni che erano già altrove. Perché a Lampedusa non si resta, ma si passa e a volte si passa in migliaia e migliaia. E quando è così, come nella situazione che siamo affrontando da giorni, non posso farmi gli affari miei. Io, come molti altri, siamo al molo, a dare acqua, viveri. A regalare un giochino a un bimbo che dopo aver tanto sofferto, sembra felice.
Ho 32 anni, sono di Catania, la mia professione in Sicilia mi ha messo di fronte a tante persone in condizione di fragilità e vulnerabilità.
Ma qui a Lampedusa si guarda in faccia chi ha perduto tutto e si accontenta di essere vivo. E così, anche il fatto di non trovare posto sull’aereo per tornare a casa quando potrei – tra turisti e forze dell’ordine, prendono tutti i posti – mi pare sopportabile. Io, in fondo, una casa dove tornare ce l’ho.
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Martina De Lucia – Sicilia