La separazione, la rabbia, il Dna, la nuova verità. Mai una vicenda uguale all’altra

Eccomi all’opera, ufficio da condividere fascicoli da esaminare,
Leggi ! Mi hanno detto, così ti fai un’idea.
Non ho risposto.
Io le persone ho bisogno di vederle in volto, non memorizzo i dati anagrafici, devo ricordare attraverso le loro case, i colori, le voci.
Ho preso una cartella, la più voluminosa, anche in queste circostanze ero “golosa” di sapere, di provare, era pesante, grigia con all’esterno nomi e cognomi scritti in corsivo con un pennarello nero. Si leggeva bene.
Francesca che mi guardava, mi ha informata, che era relativo ad una storia rognosa, complessa, ma nulla di urgente.
Ho comunque cominciato a leggere dagli ultimi scritti. Era ordinato in modo cronologico rispetto a quanto accaduto.
Decreto, relazioni di aggiornamento, verbali, consulenza tecnica d’ufficio.
Era la vicenda che riguardava tre bambini, che vivevano con la madre, separata dal marito e padre dei suoi figli.
Una storia come altre, ma questa era al contrario.
(…)
Da quello che avevo letto i due genitori, anche da separati continuavano a litigare, tanto, troppo. Facevano a gara a chi chiamava per primo i Carabinieri. Entrambi pretendevano di avere ragione, un classico.
Ho convocato il padre, che si è presentato puntualmente al giorno e all’ora fissata.
Goffo, testa grande protesa in avanti, voglia di combattimento, mi sono detta, quando è entrato in ufficio.
E voilà! Infatti, mi ha messo sulla scrivania, ancora prima di accomodarsi, il suo cellulare, dicendomi che l’incontro sarebbe stato da lui registrato.
Fantastico, come inizio niente male!
L’ho invitato a ritirare l’oggetto tecnologico, e gli ho spiegato che sarebbe stato redatto un verbale mentre parlavamo, che avrei riletto alla fine dell’incontro. Lui avrebbe potuto firmare accanto al mio nome, dopo avere letto, per accertarsi circa la veridicità.
Consolato anche se solo in parte, ha intascato il telefono, secondo me senza modificare l’impostazione di registrazione.
Ho condotto l’incontro come se fossi osservata ed ascoltata da altri. Che fatica, che extrasistole. Era arrabbiato, diceva parolacce, era inconsolabile, era tutto tranne che capace di dire una sola cosa positiva, affettiva. Non vedevo uno spiraglio, un gancio al quale attaccarmi per trovare un punto in comune.
Niente, tutte le nozioni apprese e sperimentate come mediatrice famigliare, con tanto di formazione milanese, non servivano.
Cosa mi desse tanto fastidio lo sapevo.
Avevo bisogno di fare bella figura, di riuscire a gestire incontri fruttuosi.
Non ci riuscivo.
Gli studi che avrebbero dovuto rassicurarmi sulla preparazione, stavano silenti nelle loro pagine sottolineate.
Forse avevo scelto il fascicolo sbagliato.
Non erano solo queste considerazioni che mi mettevano in allerta.
Avevo tre figli anche io.
Avevo un marito che a volte voleva tutte le ragioni.
Ho concluso l’incontro, finito il verbale, riletto, con un finale da perdente: non si intravedono soluzioni proponibili alla gestione del conflitto fra i genitori.
Se dovevo scrivere la verità quella era. Il padre ha firmato, io vicino alla sua firma, ho messo data ed ora precisi.
Si è alzato, goffo come era entrato, non ha salutato, è uscito, non ha sbattuto la porta.
Un’impressione però me l’aveva lasciata, ossia che io come le precedenti colleghe che aveva conosciuto, non avessimo capito nulla della sua arrabbiatura, ormai cronica.
Sono andata, previo appuntamento a trovare la madre dei tre figli.
Incontrare in due momenti separati i genitori era l’unico modo possibile.
La ex moglie, abitava in un cascinale in aperta campagna. Neppure il navigatore satellitare era riuscito ad indicarmi la via, ho sbagliato strada due volte, poi sono andata a intuito, ossia fortuna.
La madre, era piccola di statura e con un fisico adolescenziale, ma allo stesso tempo vecchio.
Era sciupata, pelle grigia, pantaloni a vita bassa, larghi, sui fianchi stretti.
Un addome scavato, anziché arrotondato, come di solito avviene dopo più gravidanze. Lo sguardo era spento. Occhi verdi troppi grandi per quel volto, aria mesta, spalle verso il basso.
Gestiva una scuderia di cavalli, per conto dei loro proprietari, ecco il motivo per cui viveva isolata.
C’era un che di strano di dissonante nel tutto.
Mi attendevo di ascoltare una donna triste e abbandonata, piagnucolosa.
Invece la signora sembrava un umano da combattimento.
Era vispa quando parlava e sparlava del marito ormai ex, padre dei suoi figli. Era fulminea nelle risposte, non c’era traccia di fragilità, di vulnerabilità. C’era invece insolenza, indispettiva con tutte le sue parole attaccate, che pronunciava senza staccarle.
Aveva tutte le ragioni, aveva tre figli, aveva tutto lei.
Forse era diventata una madre da difesa.
Da cosa si difendesse non lo avevo capito.
Con lei oltre ai tre bimbi c’era un uomo, che se ne stava in disparte sembrava lì per caso, sembrava non voler sapere nulla, come di persona estranea ai fatti.
Ho proseguito gli incontri per due mesi, sei in tutto, poi un giorno il “padre ” dei bambini, durante un colloquio, ha abbassato la guardia.
Ha raccontato che da tempo stava malissimo perché aveva la grande paura, non ancora certezza, che i ragazzini, fossero non figli suoi ma, dell’attuale compagno della moglie, che moglie non era più.
Quella volta sono stata zitta io, ho redatto un verbale scarno ma significativo. L’abbiamo firmato con la stessa biro.
Con la collaborazione della madre, che non poteva sottrarsi, si è proceduto ad effettuare i prelievi di sangue ai bambini, dai quali risultava che per il 99% di probabilità, non erano figli di chi li aveva riconosciuti come tali.
Si è proceduto all’esame del DNA. Tutto confermato.
I bambini hanno dovuto cambiare il cognome, il presunto padre si è trasferito geograficamente lontano.
Non si è più saputo nulla di lui.
É una storia al contrario perché era già accaduto, che un figlio fosse stato riconosciuto dopo i tempi previsti per legge. Mentre in questo caso si era dovuto procedere con un disconoscimento, il cognome è stato cancellato, tolto, cambiato.
Non so cosa possa provare un bambino a sentirsi chiamare, con un cognome a cui non è abituato, forse è come perdere una parte di te, che ti distingueva dagli altri .
Forse non si poteva fare niente altro.
Che tristezza ho provato, sia per i bimbi che per il padre, che padre non era.
Aveva avuto ragione ad essere tanto iroso, aveva ragione quando diceva che si sentiva deriso. Così ha perso tutto, vita, tempo, soldi, affetti possibili.
Quando ci ripenso, credo che se ricapitasse una storia simile, rifarei più o meno le stesse cose, ma non capitano mai storie uguali.
Talvolta pensavo che se le storie fossero somiglianti, avrei faticato di meno, ma quando scoprivo nuovi modi di fare ipotesi, le persone cambiavano strategie di comportamento. Avrei dovuto capire o indovinare ogni volta, cosa fare per cercare la cura e i rimedi.
Bisognava essere tanto creativi, per prospettare interventi diversi, per persone con storie uniche.
Forse questo lavoro iniziava a piacermi anche per questo.
(…).

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Un riconoscimento al contrario – tratto dal libro “L’insolita bellezza di un mestiere” di Claudia Barbieri e Roberta Galassi