La morte di Giovanna Pedretti, ristoratrice, qualche riflessione sul come siamo – e come comunichiamo – deve comunque stimolarcela, specialmente per chi come me lavora a fianco delle persone, se non altro per far sì che questo episodio tragico non sia vano, fino al prossimo dramma.
Se fino a 25 anni fa la “comune socialità” era uscire con gli amici o andare al bar o, 15 anni fa frequentare forum o chat, adesso la connessione è potenzialmente infinita e temporalmente perpetua, e ogni evento segna il qui ed ora delle persone. Se prima, rispetto all’esporsi ad una platea, c’era un crescere di livello con le proprie emozioni, oggi puoi diventare protagonista in un momento e nello stesso lasso di tempo essere additato come il peggior stronzo sulla faccia della terra.
Tutto ciò in un palcoscenico dalla memoria nulla e però perenne, subito dimenticati ma subito richiamati in un attimo da uno screenshot.
E questo è un pezzo del puzzle, perché se ci fermassimo qui sarebbe un mondo quasi facile (il che è tutto dire). L’ulteriore livello è come queste dinamiche possono essere rappresentate, quali sono i meccanismi che propagano le notizie e contribuiscono a creare dei sentiment, delle reazioni, cosa porta il pubblico ad interessarsi a qualcosa.
Anche qui, una volta c’erano le campagne stampa, poi le crociate portate avanti su vari media: c’erano le prime shitstorm (tempeste di cacca) a livello più o meno globale.
Questo fenomeno, tuttavia, aveva dei ritmi precisi, l’uscita del giornale, l’appuntamento di un programma televisivo, e riguardava eventi importanti, personaggi politici, persone che comunque affrontavano questi percorsi dopo una esperienza personale dovuta ad un ruolo. Ciò non toglie che, nonostante cadenze temporali più gestibili e l’esperienza e la corazza costruita nel tempo, alcuni ci abbiano rimesso in salute, a volte la vita. Ed una vita è una vita, e sacrificarne una è sempre un costo altissimo: non a caso la pietas – che ora non è all’apice della popolarità – è un sentimento correlato con l’uomo, o almeno lo era.
Anche per smontare le shitstorm più grossolane iniziavano quindi fenomeni come fact checking e debunking, cioè il controllo della realtà dei fatti: la realtà che passa quindi da base della comunicazione a ricercata verifica ex post a fatti di una certa rilevanza. E anche post su social che diventano virali assurgono al rango “di una certa rilevanza”, nella nostra società. E questo porta la discussione a un livello ancora diverso.
Rispetto alla comunicazione istituzionale, che DOVREBBE essere ragionevolmente sincera, il fatto che la realtà, nei post sui social, resti in sottofondo penso sia a tutti chiara: coppie che si odiano che mettono la foto sotto l’albero di Natale, video di TikTok dove trentenni vendono la propria immagine nel fare azioni che sarebbero state idiote anche in seconda elementare, segmenti su X per fare colpo sulle persone e sul mercato. Abbiamo inventato gli avatar, ma poi alcuni avatar hanno sostituito le persone che li avevano ispirati, specchi deformanti che pretendono di disegnare una realtà parallela.
E la vera domanda resta sullo sfondo: come la ritroviamo la realtà? Quale tipo di fact checking possiamo fare su strumenti che sono alla radice portatori sani di distorsioni e camuffamenti, maneggiati peraltro in maniera goffa da tante persone? Come distinguere, come cantava Ligabue, tra palco (social) e realtà?
Ve lo faccio io un esempio di realtà. Qualche giorno fa una donna con alcune problematiche si era buttata dal tetto di una abitazione con la figlia di 6 anni ed il cane.
La figlia ed il cane erano morti sul colpo.
Avevo sentito la notizia verso la fine di un telegiornale, dopo immagini di guerra di cui spesso fatichiamo a comprendere il significato e provvedimenti governativi che arriveranno sul campo dopo mesi, se vedranno la luce, le promesse di un ministro di quart’ordine e le polemiche del Grande Fratello.
La mente umana, le sue debolezze, i suoi incubi, messi in coda, senza un ragionamento ulteriore.
Un’intervista ai vicini. Scendeva il cane, salutava sempre. E passiamo al meteo.
Mettiamo pausa, invece.
Non viene mai evidenziato quanto tutti noi siamo sul filo.
Quelli che si buttano dal tetto, quelli che uccidono, quelli che fanno la guerra, quelli che girano con le pistole, quelli che fanno la morale agli altri perché hanno fallito i propri obiettivi, quelli che litigano sui cornicioni della morale sui social.
La morte propria, la morte degli altri, la morte dei nemici, la morte come monito, la morte sociale degli altri per bilanciare le proprie frustrazioni, le proprie aspirazioni, con le parole che diventano armi.
Non conosco la storia personale di Giovanna Pedretti, aldilà di un post in cui condannava una recensione, che non si sa se sia mai esistita, di rara bruttezza morale. Giovanna se l’era inventata? Gliela avevano passata come vera? Esisteva davvero? Non so. Avere eventualmente verificato la non veridicità del post di origine cosa ci dirà, domani, dopo la tragedia che è accaduta? Cosa ci rimane, oggi?
C’era una donna, che per diverse persone era importante, cancellata con dolore per un eventuale errore di cui non si sa quanta parte attiva la signora abbia avuto. Magari non una santa, che ne girano poche, comunque, ma ragionevolmente non certo una delinquente.
Il punto oggi è capire quali argomenti mettere in copertina, su quali argomenti investire davvero. Il punto oggi è capire chi è l’interlocutore che hai davanti (la persona, non l’avatar) ed avere il rispetto di evidenziare eventuali situazioni spiacevoli nei modi e nei tempi che servono per modificare il comportamento senza ingaggiare corpo a corpo con le persone.
Nei nostri uffici succede tutti i giorni, lontano dai social, lontano dal clamore, vicini alla realtà.
Comportarsi così non farà audience, non farà sensazione. Ma farebbe bene a tutti.
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Post FB di Federico Basigli, assistente sociale umbro. Per sua gentile concessione