Cercando la strada per la terra di mezzo dove raggiungerci, capirci, chiarirci…

Mi sono seduta sul bordo del letto, su tuo invito, con un po’ di imbarazzo. No: non è paura. Non ho paura di te, non in questo momento, almeno. È più una forma di rispetto per la tua persona, per la tua – poca – intimità, perché so che, se anche di te hai messo in piazza ormai tutto, una tua piccola area di segretezza, di verità taciute e di una te stessa autentica e profonda, ce l’hai ancora, forse nel posto in cui ti fa più male entrare, ti fa più male rimanere. Questo imbarazzo si mischia all’incertezza: cosa dire? Cosa fare? Come porsi?

Sei seduta sul letto, piegata in gesti rigidi, piangi e alzi la voce, gesticoli e fissi il vuoto. Io ascolto, non mi lascio allontanare dalle urla e dagli insulti, cerco di arrivare con una voce pacata (chissà se ti sembra petulante e vuota?) nella terra di mezzo: quella in cui possiamo raggiungerci, capirci, chiarirci… quella in cui possiamo parlare la stessa lingua e trovare il modo per farti stare un po’ meglio.

Sulla parete, dietro di te, una foto. La foto di qualcuno che ha detto di amarti e poi se n’è andato, lasciandoti ancora una volta sola, tremendamente e dannatamente sola… La foto non è dentro le cornici d’argento possedute dalle persone con le case “per bene”, non è sviluppata a colori brillanti, ma è sua: parla di lui, ricorda lui. È la sua immagine in bianco e nero attaccata con pezzetti di scotch ad una squallida parete di un posto che non ti appartiene, che non vuoi e che detesti, ma che ti permette ancora una volta di sopravvivere. E forse è per questo che non sopporti questa stanza, che non sopporti tutti noi: ti permettiamo di continuare a vivere anche dopo questo ennesimo tutto che si è sciolto nel niente di un abbandono, di una morte.

Dino. Anche io lo conoscevo. Tu lo sai ed è per questo che fai una tregua e mi parli con una calma quasi irreale. Mi parli di lui. E io rimango sorpresa dall’intensità di quell’amore, che descrivi come una ragazzina potrebbe descrivere il suo innamorato. Lo so che non era certo il primo cui ti legavi, che la vostra storia non è stata idilliaca, che tu non hai perso l’uomo ideale, ma sento come il tuo bisogno di amore ti faccia aggrappare ad ogni relazione, senza remore e mezzi termini, con una forza sproporzionata rispetto al tuo esile corpo e alla tua fragile mente … sento come nella tua vita tu ti sia trascinata tra questi incredibili slanci profondi e i baratri ancora più profondi e bui in cui sei sempre precipitata.

Ti lascio gridare la tua disperazione: la puoi infarcire di tutte le più spregevoli parole che vuoi. Una parte di me spera che in queste grida e in queste lacrime il dolore trovi il modo di potersi incanalare e di sciogliersi. Ma mi domando: poi, di te, cosa ci sarà ancora? Quanto ancora una persona può sopportare? Quanto l’attaccamento alla vita, l’istinto di sopravvivenza o qualunque cosa sia che ti spinge ad esserci ancora, potrà durare?

Guardo il tuo viso troppo rugoso (riuscissi a strappargli un sorriso e vederlo distendersi almeno per un secondo di vago lontano sereno), ricordo la tua data di nascita, … Cosa veramente ci separa? Una manciata di anni? O piuttosto un tempo incalcolabile, fatto di tutta quella vita troppo intensa e troppo brutale che tu hai vissuto? Una famiglia diversa? O piuttosto una serie di coincidenze che hanno infierito senza pietà su di te, risparmiando altri, altri più simili a me? Un ruolo diverso, che mi vorrebbe qui per aiutarti, anche quando tu – di aiuto – forse non ne vuoi neanche più? Come? Come posso aiutarti, tirarti almeno un po’ fuori dal pantano in cui sei finita? Dovrei saperlo, sai? Dovrei avere le idee chiare, vedere dove tu non vedi, guardare oltre…

E io vedo: vedo ciò che potrebbe ancora essere per te, vedo una miriade di possibilità e di scenari. E so: so cosa sembrerebbe corretto, logico, sano, giusto fare. E guardo oltre: oltre ai tuoi rifiuti e alla tua dannata ostinazione nel farti del male. Però capisco che, per riuscire veramente a trovare una strada percorribile, dissestata ma percorribile, devo guardare anche con i tuoi occhi, sapere con la tua testa, vedere ciò che vedi tu.

Quando tu mi lascerai veramente vedere un po’ di ciò che vedi, allora forse potrai anche tu vedere un po’ di ciò che vedo io. Rimango ancora un po’ sul bordo del tuo letto, ti passo dei fazzoletti, attendo il momento per dirigerci verso la nostra terra di mezzo.

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E.G. Veneto