Integrazione socio-sanitaria, che non c’è, e ‘socialese’. Vita e riflessioni

Siamo in Lombardia, territorio urbano di un capoluogo di provincia di piccole dimensioni. Ci sono Gianfranco, 86 anni e Rosetta, 78.
Hanno 2 figli, uno di 54 e uno di 46 anni, entrambi lavorano. Uno su turni, l’altro no, ma, nel tempo, ha assommato diversi incarichi e – quindi – è impegnato spesso anche nel fine settimana, lontano da casa.

Rosetta, sarta e donna di casa esemplare, obesa, con un brutto diabete che tende a scompensarsi, soggetta a frequenti infezioni delle vie urinarie. Negli ultimi due anni è stata ricoverata diverse volte: il diabete si scompensava per via dell’infezione, che, a causa del diabete era più difficile da curare. Un vortice di sfiga.
Durante l’ultimo ricovero, i medici cominciano a pensare che sbagli a farsi l’insulina. Indagano e diagnosticano un iniziale deterioramento cognitivo a carico delle funzioni esecutive. Niente di drammatico, ma niente che il sistema dei servizi abbia previsto come eventualità a cui rispondere e, dall’ultimo ricovero di luglio di quest’anno, non si riprende mai del tutto. Fa solo qualche passo in casa con il deambulatore e determina umori e sorti della casa dalla sua sedia in cucina.
Gianfranco, 86 anni di rigoroso silenzio, uomo di lavoro e di famiglia, mai la manifestazione di un sentimento, in questo quadro, tiene botta. Di lavoro, faceva andare le macchine del cinema e dice sempre che ha fatto in tempo ad andare in pensione prima che il cinema iniziasse a girare sulle chiavette USB. Le macchine di film – una volta – facevano un rumore infernale, e Gianfranco, a 86 anni, è sordo.
Rosetta era stanca di sgolarsi, e allora tutta la famiglia è andata a fargli fare gli apparecchi acustici. Li ha usati un mese, poi gli davano fastidio e, adesso, gli apparecchi acustici guardano dal comodino Gianfranco che si muove per il mondo senza sentire una parola.
Gianfranco e Rosetta, con i loro acciacchi, vanno avanti. I figli e i nipoti vanno a trovarli, fanno la spesa grossa, danno una mano per le faccende complicate.
Il 16 settembre, la sera, Rosetta cade mentre va in bagno. Non sa come, ma si è trovata in terra. Uno dei figli la accompagna in ospedale, l’altro era a Genova per lavoro. Inizialmente sembrava non fosse successo niente, soltanto uno spavento, ma, durante la notte, Rosetta non riesce ad alzarsi dal letto e chiama l’ambulanza. In Pronto Soccorso dicono che è una frattura del femore. Il mattino dopo il figlio che era a Genova per lavoro, appena scopre cosa è successo, riparte per andare in ospedale. Fa prima a tornare da Genova che a parlare con suo padre al telefono perché ovviamente, Gianfranco non sente il telefono.
Il ricovero di Rosetta è complicato dall’ennesima infezione delle vie urinarie, che era quasi diventata una sepsi. Prima dell’intervento di sintesi della testa del femore passano due settimane: 78enne obesa, diabetica, due settimane a letto. Poi l’intervento. E il trasferimento in riabilitazione.
Durante il ricovero di Rosetta, Gianfranco si arrangia. I figli gli fanno quel minimo di spesa ma, quando gliela portano, lui sta tornado dal supermercato con la sua di spesa. Si cucina quel minimo che gli serve, si gestisce nel suo perimetro di confort.
A un mese esatto dalla caduta di Rosetta, una notte, Gianfranco va in bagno, come al solito e…si ritrova in terra. Non ricorda di essersi sentito male, né di essere scivolato o inciampato. Si alza, e si siede in cucina, aspettando che la vicina arrivi alle otto, come ogni mattina, per mettergli i tre colliri che – da agosto – doveva mettere due volte al giorno per curare un glaucoma. Si siede in cucina e aspetta. Quando la vicina arriva, tre ore dopo la caduta, chiama uno dei figli, che l’altro era al lavoro.
Pronto Soccorso, 14 ore, sei costole rotte, improvvisamente incapace di fare qualunque cosa.
È un giovedì. Viene trattenuto in osservazione. I figli tra due ospedali, i turni e le loro vite. Il venerdì sera, andandosene dall’ospedale dov’era ricoverato Gianfranco, per uno scrupolo inspiegabile, uno dei due figli dice alla caposala che è più tranquillo, che sicuramente non lo dimetteranno di sabato o di domenica.
“Non è mica detto, sa…”, gli risponde la caposala.
È brutto dirlo, ma in quel momento – stanco per il mese appena trascorso in ospedale con la madre e con la prospettiva di un altro mese per il padre – quel figlio ha compreso il fenomeno dell’aggressività nei confronti degli operatori sanitari; è un fatto ingiustificabile, ma innegabilmente umano: per quanto lo ripugni, non può dire di non averla sentita salire lungo la schiena, quella fiammata.
Figlio: “Le formalizzo una richiesta di dimissioni protette”.
Caposala: “Cosa intende per dimissioni protette?”.
Figlio: “Lo sta seriamente chiedendo a me?”.
Caposala: “Eh, si. Ci sono la COT, la COD, il voucher, …cosa intende?”
Figlio: “Intendo che un uomo in quelle condizioni non può tornare a casa da solo”.
Caposala: “Ce lo doveva dire prima”.
Figlio: “E’ la prima cosa che le ho detto, che mia madre è in ospedale”.
Caposala: “E la badante?”.
Figlio: “Ma quale badante? Fino a ieri andava a fare la spesa da solo”.

Silenzio.
Figlio: “…non c’è posto all’ospedale di comunità?”.
Caposala: “Vediamo…”.

Passano due giorni. Il personale del reparto diventa inspiegabilmente spigoloso. Tra sabato e domenica, uno dei figli riesce a trovare la disponibilità di una clinica che potrebbe accettare il trasferimento di Gianfranco, a condizione che la diagnosi di trasferimento sia compatibile.
Clinica: “Dev’essere un problema medico, non un trauma”.
Figlio: “E’ caduto e si è rotto sei costole”.
Clinica: “E’ un trauma.”

Silenzio.
Clinica: “Se trovano qualcosa di medico lo prendiamo”.

Il figlio fa da tramite con l’ospedale: diagnosi di comparto medico, appropriatezza del ricovero, eleggibilità della diagnosi.
La domenica pomeriggio, dal Pronto Soccorso, gli assicurano: “Domani mattina alle 9 è trasferito in clinica”. Pare strano, la domenica! E, per un altro scrupolo inspiegabile, il figlio sente la clinica: “Noi non ne sappiamo niente”.
La situazione inizia a diventare grottesca. Il figlio richiama il Pronto Soccorso: “Dalla clinica mi dicono di non saperne nulla”.
Pronto Soccorso: “E’ impossibile. Io lo vedo segnato a terminale”.
Figlio: “Quindi sto tranquillo?”.

Silenzio.

Il mattino dopo, era prima delle sette, il figlio riceve una telefonata dall’ospedale di Gianfranco: “Mi scusi, ma chi ha organizzato il trasferimento di suo padre?”.
Figlio: “Siete seri?”
Ospedale: “Si, ci sono la COT, la COD, i voucher…”.
Figlio: “Vi rendete conto che state chiedendo a me chi ha organizzato il trasferimento dal vostro ospedale a un altro? Vi sembra normale?”.
Ospedale: “…ma hanno ancora posto in clinica?”

Silenzio.

Al momento in cui scrivo, sono passati due mesi.

Rosetta è tornata a casa sua lo scorso mercoledì. Gianfranco è in riabilitazione e tornerà a casa domani. Rosetta ha ripreso a camminare male e per pochi passi con il deambulatore.
I figli, nel mezzo, hanno sistemato la casa dei genitori: tempesta di maniglioni, alzate per i sanitari, ausili per la doccia, il letto troppo basso. Tutto quello che rendeva quella abitazione famigliare, all’improvviso, diventa un problema.
Di cosa avrà bisogno la mamma tornando a casa?
Dell’infermiere, per controllare la glicemia e preparare la terapia (1 volta la settimana), del fisioterapista a domicilio per continuare la riabilitazione (2 volte la settimana), di qualcuno che la aiuti per l’igiene personale (40 minuti al giorno), di qualcuno che stia con lei e la aiuti a tenere la casa (3 ore al giorno).
Per mettere insieme questo pacchetto di aiuti, che – comunque, di sicuro – lascia scoperta una quota di rischio, i figli hanno dovuto parlare con:
1. Il medico del reparto
2. Il fisiatra per avere il progetto riabilitativo
3. L’assistente sociale della riabilitazione per attivare l’assistenza domiciliare
4. L’assistente sociale del comune, per attivare la stessa assistenza domiciliare
5. Il medico di base, per l’impegnativa per l’infermiere
6. L’ASST, per scegliere il fornitore dei servizi socio sanitari
7. L’ASST, ma un altro ufficio, per la fornitura dei pannoloni
8. Il Fornitore del Servizio di Assistenza Domiciliare
9. Il Fornitore del Servizio di Assistenza Domiciliare Integrata
10. Il Fornitore dell’assistente famigliare.
Nel 2024. Dopo 35 anni che parliamo di integrazione socio sanitaria e dopo una riforma e mezza del sistema sanitario. Dopo la pandemia, dopo il DM 77, dopo la L.33.
Vi svelerò un segreto. Quei figli hanno seriamente rischiato di impazzire: i genitori in due ospedali diversi, gli orari di visita, i turni, le loro vite, i cambi, le lavatrici. Tutto travolto da un evento che, sulla carta, è banale, niente di troppo grave.
Vi svelerò un altro segreto. Uno di quei figli sono io, che da 22 anni faccio l’assistente sociale, occupandomi esattamente di queste cose.
Ho provato a cercare un senso, consapevole che la mia sia un’ottica sicuramente parziale. I servizi, tutti i servizi, sono pensati per essere funzionali alle organizzazioni e agli operatori, non a chi di quei servizi ha bisogno.
Ho l’impressione che osserviamo i fenomeni da una prospettiva che rassicura noi operatori, più che rispondere a quello che serve.
Per una parte consistente del mio lavoro, scrivo progetti per appalti. Un giorno, ragionando sulla qualità di un servizio – l’assistenza domiciliare, in particolare – sono andato a vedere i risultati della customer satisfaction.
Buoni, meno buoni, ma cosa indagavano?
Sei soddisfatto della puntualità dell’operatore?
Sei soddisfatto di quanto lascia in ordine?
E mi sono chiesto a cosa mi servisse – da gestore del servizio che volesse migliorarne la qualità – sapere che i miei operatori sono puntuali?
Ho fatto un esperimento: ho chiesto ai fruitori finali del servizio cosa fosse per loro la qualità dell’assistenza domiciliare, poi l’ho chiesto ai servizi sociali che pagavano la mia cooperativa per erogare quel servizio.
Prima sorpresa: la puntualità degli operatori non era affatto un tema. Certo, era importante sapere più o meno a che ora sarebbe arrivato l’operatore, ma era tanto più importante che quell’operatore sapesse infondere sicurezza, sapesse mettere a proprio agio le persone. Mi sono chiesto: per l’operatore, per le organizzazioni che quell’operatore lo valutano, è importante che sia puntuale o che sappia mettere a proprio agio le persone?
Seconda sorpresa: per i servizi sociali queste dimensioni erano fuori dai radar. Le questioni erano di natura più amministrativa.
Terza sorpresa: nella media, chi scrive i documenti di gara (o di accreditamento) per esternalizzare questo servizio, non considera né la prima né la seconda prospettiva.
Ecco, la riflessione che faccio – e la faccio perché penso che chi legge qui e fin qui è una collega o un collega – quanto del nostro lavoro, e in astratto, quanto tutto il sistema dei servizi sia pensato per rassicurare noi operatori, per darci l’illusione “di aver risposto” e quanto, invece, sia fatto per rispondere a un bisogno che, spesso, conosciamo soltanto a valle dei processi di programmazione e che siamo costretti a incastrare nelle pieghe di quello che abbiamo a disposizione?
L’integrazione socio sanitaria è solo una parola e non possiamo aspettarci che funzioni per decreto e, dove funziona, funziona perché ci sono persone che vogliono farla funzionare.

Penso a tutte le volte che quel figlio non sono stato io, che da 22 anni lavoro in questo campo e che, comunque, sono diventato scemo.
Penso alle volte che ho visto lo sgomento negli occhi di altri familiari, magari 40enni e magari ingegneri, intendo, non persone con evidenti limiti, quando gli parlavo di SAD, ADI, COT, PRESST, e tutto il socialese che amiamo cosi tanto. E lo dico – comunque – dall’osservatorio di una Regione che – inspiegabilmente, è presa a modello dalle altre.

Ecco. In tutto questo, voglio vederci un’opportunità, un’enorme opportunità per ripensare le politiche sociali, a partire dal basso, da noi. Credo che siamo abbastanza maturi per poterci permettere di fare delle proposte, e di farle seriamente, studiando e portando evidenze, in tutti gli spazi che possiamo abitare in forza del nostro ruolo. Dal front office, provando a immaginare il nostro lavoro con gli occhi di chi abbiamo di fronte, fino alla programmazione che, tante volte, ho avuto l’impressione che rischiamo di interpretare come un esercizio di stile.

Francesco – Lombardia